“Il concetto di sviluppo non ha un significato univoco. Nel corso del tempo – sottolinea Pittella – è stato identificato a volte con il progresso, talvolta con la crescita, con la modernizzazione o con l’industrializzazione. L’idea contemporanea dello sviluppo risente fortemente della precedente concezione che, in una visione antropocentrica, lo ha inteso come modernizzazione, come evoluzione, cioè, delle attività umane. Ancora all’inizio degli anni ’50 lo sviluppo economico era inscindibilmente associato al progresso umano inteso come dominio della natura. Oggi, questa concezione alla luce di teorie ormai ampliamente confermate, come quella del picco del petrolio, momento in cui la produzione petrolifera di una regione, di una nazione o del mondo raggiunge il suo massimo dopo il quale, essa declina inesorabilmente con pesanti conseguenze sulla disponibilità di energia, non è più sostenibile. In assenza di validi sostituti energetici e di un ripensamento delle forme di consumo, la crescita dei prezzi e la riduzione degli approvvigionamenti che si profilano all’orizzonte rischiano di sconvolgere il sistema economico e produttivo e di incrementare la già alta conflittualità planetaria per l’appropriazione di risorse sempre più scarse. In questi anni, purtroppo, abbagliati dal mito del progresso, si è arrivati a negare l’evidenza sino a sostenere che i combustibili fossili e, in generale, le risorse minerarie del pianeta fossero di fatto inesauribili. Questo mito con il tempo – prosegue Pittella – ha pervaso l’immaginario collettivo fino a produrre teorie economiche che, in palese contraddizione con i principi della termodinamica, sono arrivate a negare il problema dell’esaurimento delle risorse postulando la completa sostituibilità del capitale naturale con il capitale tecnologico e finanziario e la conseguente indipendenza del sistema economico dall’ambiente fisico”.
“Ignorare a lungo l’esauribilità e continuare a credere in un’infinita disponibilità delle risorse può però – a parere di Pittella – costare molto caro alle moderne società del benessere. Disponiamo ancora di ingenti risorse finanziarie, energetiche e materiali per provare a cambiare il nostro sistema di produzione e consumo, per diversificare gli investimenti, per liberarci dalla dipendenza dei combustibili fossili, per ridurre la dispersione in forme non sfruttabili di risorse minerarie sempre più scarse, per superare, in altri termini, la logica, alla lunga diseconomica e controproducente, dello spreco e della crescita continua dei consumi. Non è sufficiente parlare di uno sviluppo sostenibile inteso come processo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni, oggi lo sviluppo deve essere teso alla salvaguardia degli ecosistemi di supporto, dai quali essa dipende. Il concetto di manutenzione diviene così cardine per il futuro del mondo, stimolando i cittadini a conservare, a ridurre lo spreco, ad agire in sicurezza, a condurre un’esistenza sostenibile che renda vivibili le nostre città ed efficienti quanto virtuose le nostre fabbriche, nel rispetto dell’ambiente e della vita umana. La cultura del mantenimento diviene, dunque, l’unica alternativa allo sviluppo incontrollato delle attività produttive che porterebbe inevitabilmente al disastro l’umanità. Un comportamento responsabile che si traduca nel rispetto di un sistema di regole condiviso che orienta l’individuo verso comportamenti critici e razionali su molti aspetti del quotidiano: la gestione dei rifiuti, il rispetto di norme e principi del ‘vivere comune’, la tutela dell’ambiente, la salvaguardia e l’uso razionale delle risorse di un territorio, e non solo. Lo sviluppo sostenibile necessita, prima di tutto, di una presa di coscienza del cittadino che deve orientare il proprio vivere quotidiano verso comportamenti sostenibili nel tempo e fortemente orientati al rispetto delle regole. Senza una comunità informata, chiamata ad affrontare la diminuzione dei beni di servizio, tutte le strategie intraprese rischiano, dunque, di divenire semplici palliativi che allontanano ma non risolvono il problema. Lo sviluppo non si può misurare con la grandezza economica di una comunità, ma dalla mobilitazione di una intera collettività in cui cultura non è strumento di affermazione di pochi, ma piuttosto crescita di tutti. Lo sviluppo si misura dall’esiguità della forbice della disuguaglianza poiché esso non è dato certo dalla qualità della vita di coloro che sono ai gradini più alti della scala sociale di una comunità bensì da quella di coloro che stanno agli ultimi. Mi piace rileggere in quest’ottica anche le parole del nostro presidente De Filippo che in un suo recente articolo analizzava il ritardo dello sviluppo del Sud nel panorama italiano. Quanto detto, infatti, è vero a livello regionale così come a quello dell’intero Paese”.