Fiat, Brenna (Donne democratiche): ascoltare operaie lucane

"Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo. A distanza di soli vent’anni le tute amaranto non ci sono più: eppure si era trattato di un simbolo di forte portata, che marcava la fine delle tute blu, e dunque il passaggio ad una nuova era per il lavoro metalmeccanico e pesante. Già da alcuni anni le tute Fiat sono diventate tute bianche, segno di un lavoro sempre più automatizzato e digitalizzato, che non ha fatto i conti con le esigenze delle donne".
Lo dichiara Rossella Brenna, portavoce delle Donne democratiche".
"Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata ci sono tantissime donne metalmeccaniche, in una regione come la Basilicata con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume,  una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali  e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne. Le donne della Fiat – rimarca Brenna – hanno prodotto con il loro reddito operaio, in quanto secondo reddito, un benessere spesso superiore alla media delle famiglie locali, con nuovi consumi, nuovi stili di vita, nuovi atteggiamenti consumistici e talvolta ostentatori, che hanno costituito il riverbero sociale di uno status lavorativo percepito come invidiabile nei contesti di appartenenza, costruito dalle donne con una vita di lavoro duro e con una faticosa conciliazione quotidiana, quella tra i tempi della fabbrica, tra i turni e la durezza del lavoro della linea e i tempi e i valori della cura familiare. Infatti le donne della Fiat patiscono, assieme ai loro colleghi uomini, le ristrettezze dello stipendio ridotto con la cassa integrazione guadagni, vivono un clima di crescente tensione lavorativa, di impossibilità in questa delicata fase di manifestare esigenze fondamentali, come l’astensione dal lavoro per malattia o l’impossibilità di sostenere postazioni pesanti, dovute alle ridotte capacità lavorative: il timore di poter perdere il lavoro, di una eventuale riduzione del personale conseguente alla ristrutturazione inducono, a torto o ragione, a sopportare e a stringere i denti, anche in funzione di una settimana lavorativa articolata su pause  a singhiozzo.
Dopo queste riflessioni sembra quasi un paradosso – conclude Brenna – non concedere alle donne Fiat una tuta di colore più consono alle loro esigenze: tutto si sdrammatizza da parte di FCA con un paio di culotte che suona più come una presa in giro. Difficile fare previsioni, dunque, ma è indubbio che la politica nazionale sia comunque chiamata a porsi il problema e a fare la sua parte: le donne di Melfi, nel frattempo, stanno indubbiamente già facendo la loro".

bas 02

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