Per il consigliere regionale “la politicizzazione dei processi (come, purtroppo, anche nel caso di ‘Toghe Lucane’) non giova all’accertamento della verità, ma solo al protagonismo di pochi magistrati che prevalgono sul lavoro silenzioso di tanti”
“Migliaia di pagine di atti processuali, milioni di euro spesi per le intercettazioni telefoniche, decine e decine di persone indagate e sottoposte al pubblico ludibrio, perquisizioni, in un procedimento destinato, secondo alcuni, a cambiare la storia della Basilicata. Cosa resta di ‘Toghe Lucane’ dopo l’archiviazione disposta dal Gip di Catanzaro?. La rapida carriera politica di De Magistris all’epoca dei fatti quasi sconosciuto pubblico ministero, oggi parlamentare europeo e candidato Sindaco a Napoli”. Sono le considerazioni del consigliere di Alleanza per l’Italia, Alessandro Singetta.
“Ma resta anche il ricordo – continua Singetta – devastante per taluni, delle perquisizioni subite, una cultura del sospetto sempre più diffusa, rapporti familiari tesi, carriere lavorative stroncate o ridimensionate, un’immagine della Basilicata diventata terra del malaffare, con un insolito connubio tra politici, imprenditori e magistrati (nonché forze dell’ordine) tutti presuntamene tesi a coprire reciprocamente le altrui responsabilità. Certo, c’è un danno subito da coloro che sono stati, ingiustamente, possiamo e dobbiamo dire a questo punto dopo che il Gip ha respinto le richieste di chi chiedeva ulteriori accertamenti, affermando che sono troppi i documenti acquisiti, tante le testimonianze assunte, moltissime le intercettazioni, inquisiti, i quali avranno difficoltà ad ottenere qualunque forma di risarcimento, ma c’è un danno più grave che abbiamo subito tutti noi lucani: quello di essere stati additati, in maniera pressoché indistinta, come un popolo aduso a pratiche illegittime ed illegali”.
“Mi sono chiesto spesso – afferma Singetta – durante gli anni di ‘Toghe Lucane, quale potesse essere il giudizio di altre persone residenti nel progredito nord o nell’arretrato sud; e la risposta non poteva che essere estremamente negativa, come dimostrano i tanti articoli apparsi anche sulla stampa nazionale. Né poteva essere diversamente, dal momento che, lo ripeto, neppure nelle regioni a più alto tasso malavitoso le varie inchieste sono mai arrivate ad ipotizzare, come da noi, un sorta di ‘cupola’ che controlla tutto e di cui fanno parte tutti quelli che ‘contano’. Non penso che questo sia il momento delle rivincite, né quello di sottacere che anche da noi vi sono molti episodi che meritano la giusta attenzione da parte della magistratura inquirente e delle forze dell’ordine: ma bisogna anche avere la capacità di far venire alla luce tali eventi e l’umiltà di indagare in silenzio, scevri dal facile protagonismo dei processi mediatici. Il processo penale, è bene ricordarlo, rappresenta la massima espressione simbolica della potestà punitiva dello Stato ed i codici di procedura penale sono uno dei punti di discrimine tra società democratiche e dittature. Anche la struttura dei processi, lungi dall’essere mera tecnica, esprime una gerarchia di valori, l’idea di quale debba essere il rapporto tra Stato e cittadini. Ma la politicizzazione dei processi (come, purtroppo, anche nel caso di ‘Toghe Lucane’) non giova all’accertamento della verità, ma solo al protagonismo di pochi magistrati che prevalgono sul lavoro silenzioso di tanti. Bisogna, tuttavia, anche ammettere che alcuni, reiterati, errori della ‘politica’ hanno avuto come conseguenza che l’opinione pubblica si sia affidata al potere giudiziario quasi in una sorte di supplenza degli altri poteri sottoposti al controllo di legalità. Mi auguro che, anche in virtù dell’epilogo di ‘Toghe Lucane’ che ha ribadito come i processi non si possano, né debbano, celebrarsi su mass media, la Giustizia cessi di essere come la maschera di Trasimaco, ovvero un paravento dietro cui celare battaglie volte ad altri fini, e torni ad essere un servizio a tutela dei cittadini”.